PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 25 febbraio 2018 - II Domenica di Quaresima - B

II Domenica di Quaresima - B                                                                   

Domenica 25 febbraio 2018

1ª lettura: Gen 22,1-2.9a.10-13.15-18

2ª lettura: Rm 8,31b-34

Vangelo: Mc 9,2-10

 

Il popolo della montagna

 

Non posso assolutamente dire che non mi piaccia il mare, tutt’altro! Tra le mie numerose esperienze pastorali c’è pure una breve parentesi (poco più di un anno) come parroco in due piccole parrocchie della Liguria di Levante, ed è una delle esperienze che ricordo con maggior affetto e nostalgia. Aprire le finestre della stanza il mattino, e trovarsi di fronte il Golfo dei Poeti e Portovenere sono cose che a fatica si cancellano dalla mente e dal cuore. E capisco benissimo chiunque ami trascorrere al mare le proprie vacanze, con tutti i loro annessi e connessi. Ma la montagna, a mio avviso, ha un fascino in più…

Da quando sono parroco a Bolgare, ho imparato ad apprezzare anche le bellezze e le particolarità della pianura, soprattutto nella sua mutabilità, secondo le stagioni: dal profumo tutto invernale della nebbia alle rosse distese dei papaveri di primavera, al chiassoso frinìo delle cicale nell’afosa calura estiva, al multicolore vestito dei platani, in fila davanti alle cascine baciate dall’ultimo sole autunnale…la pianura è davvero poesia. Ma la montagna, a mio avviso, ha un fascino in più…

Neppure alla città manca nulla, soprattutto a quelle piccole cittadine come la nostra Bergamo, dove si vive tutto sommato tranquilli rispetto al caos delle metropoli, e dove grandi capolavori dell’arte medievale si trovano rinchiusi in meno di un chilometro quadrato, delimitato da mura possenti, testimoni di una storia gloriosa, dall’alto delle quali, di sera, è possibile fermarsi a contemplare lo scintillio di luci che per la vista di alcuni giunge fino a Milano, e per quella un po’ più ardita di altri addirittura fino a Torino o a Bologna… Ma la montagna, a mio avviso, ha un fascino in più…

E noi Orobici, “popolo delle montagne”, con una città che è contemporaneamente “de sura e de sota”, ma soprattutto “de sura”, di montagna ce ne intendiamo bene. E lo sanno tutti, che ce ne intendiamo: non solo perché dai tre giorni della visita militare, al termine delle 567 domande del test, noi maschi uscivamo quasi tutti arruolati alpini; ma anche perchè il sapore del latte e dei formaggi dei nostri alpeggi, la nostra proverbiale rudezza simile alla roccia della Presolana; il vento delle nostre oltre trenta vallate che spesso sa rinfrescare anche l’afa della pianura, l’acqua dei nostri fiumi e torrenti che scende da quei pochi nevai che il clima da noi abusato ancora ci ha lasciato; la legna delle nostre pinete che alimenta i camini delle nostre case…tutte queste cose fanno di noi un popolo che nasce dai monti, vive per i monti e ritorna a una terra che, di piatto, ha ben poco.

Non so se sia azzardato da parte mia pensare a questa cosa: ma chissà se la nostra famosa e altrettanto proverbiale religiosità – che fa della diocesi di Bergamo una di quelle con il maggior tasso di frequenza alla messa domenicale in tutta Italia – non sia dovuto anche a questo, ovvero al fatto di essere un “popolo delle montagne”?

Perché stando alla Bibbia, e in particolare alla Liturgia della Parola di oggi, la montagna è il luogo privilegiato della presenza e della manifestazione di Dio all’umanità: Sinai, Oreb, Nebo, Moria, Carmelo, Sion, Tabor, Monte delle Beautitudini, Monte degli Olivi, Calvario…solo per citare i più famosi… Dio è il dio della montagna, e se noi siamo “popolo della montagna”, un semplice sillogismo ci fa essere, nostro malgrado, il popolo di Dio.

Che responsabilità! Eh, già: perché essere “popolo della montagna” nel senso di “popolo di Dio” forse non è proprio l’aspetto più ameno, dolce e riposante del vivere tra i monti. Significa stare con lui mentre si trova sul monte. E sul monte, Dio non fa sempre cose piacevoli.

Il monte Moria è quello su cui il Signore invita Abramo a salire con Isacco, il figlio della promessa, per offrirlo in sacrificio: è il monte della fede drammaticamente obbediente, dove dire di sì a un Dio che ti chiede l’impossibile, non è cosa di poco conto.

Il monte Sinai è il monte sul quale Dio si è rivelato a Mosè, fuggiasco in terra straniera, e sul quale Mosè tornerà dopo l’uscita dall’Egitto per stringere un’alleanza con Dio. E il Dio del Sinai è geloso: e amare una persona gelosa, sappiamo bene quanto sia gratificante e soffocante al tempo stesso.

Il monte Oreb è il monte dove Elia, convinto di incontrare Dio nel frastuono di un terremoto, di un uragano o di un fuoco, è invitato a rientrare nella buia caverna della propria esistenza per uscirne solo al soffio di un vento leggero, perché Dio era lì, in quell’inaspettato silenzio.

Il monte Tabor è, secondo la tradizione, il luogo dove è avvenuto quanto oggi la Liturgia ci presenta, ovvero la Trasfigurazione di Gesù. È il luogo in cui Dio, nel Nuovo Testamento, manifesta apertamente la sua gloria e la gloria del suo Figlio Gesù: un luogo e un momento talmente belli, che Pietro ha già trovato la soluzione perché possano rimanere eterni, ovvero festeggiando lì la festa delle Capanne, quella in cui gli Israeliti vivevano per sette giorni sotto una tenda ricordando da una parte il cammino nel deserto del Sinai, e dall’altra le primizie del raccolto. Era la festa in cui il Messia sarebbe venuto per ricreare la Nuova Alleanza: Pietro ha finalmente trovato il suo Messia e non vuole più lasciarlo andare, rinchiudendolo nella sua tenda insieme con Mosè ed Elia, della cui presenza ovviamente è bene approfittare, visto che da secoli non li si vedeva in Israele…

No, non è possibile fare delle tende: non solo perché i tre grandi personaggi nella loro gloria non possono essere certamente rinchiusi in una tenda, ma perché il cammino e l’alleanza non si concludono nelle tende del Tabor. Perché Dio si riveli pienamente al suo popolo e sancisca la sua alleanza definitiva, manca ancora un monte. Il suo nome, Calvario – “luogo del teschio” - non è certo esaltante; la sua fama è tristemente nota per le esecuzioni capitali che i Romani usavano compiere, appena fuori dalla città, sul ciglio di una strada di grande comunicazione, di modo che tutti vedessero quale castigo li attendeva, nel caso si fossero ribellati alla legge dell’Impero.

Oggi il Calvario è più ampio e più esteso di quanto lo era allora, e ogni giorno vede il sacrificio di vittime innocenti, colpevoli solo di avere una natura umana e mortale, non come quella del Dio del Sinai, perché questo monte è un monte diverso da tutti gli altri. Ci dovremo passare tutti, e chissà quante volte, dal Calvario, e sarà faticoso anche per noi, popolo della montagna: ma c’è poco da fare, la tomba rimasta vuota sarà lì a pochi metri, e per poter correre a gridare la forza della vita, dal Calvario ci devi passare.

Per cui, tiriamo su la tenda e rimettiamoci in cammino. Con fatica, ma senza perdere la speranza.