PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

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Domenica 16 dicembre 2018 - III Domenica di Avvento - C

1ª lettura: Sof 3,14-17

2ª lettura: Fil 4,4-7

Vangelo: Lc 3,10-18

Non lasciarti cadere le braccia!

 

Pessimisti e ottimisti; attivi e passivi; apatici e dinamici; pigri e laboriosi: quando parliamo di “fare”, la società si divide sempre in queste due tipologie di persone. Da una parte, c’è gente che – come diciamo proverbialmente – “Voglia di lavorare, saltami addosso!”; gente che proprio è nata per fare il minimo indispensabile, e magari anche di meno; gente che si stanca a fare tutto, quasi anche ad andare a dormire, perché mettersi il pigiama o sistemarsi il letto è una fatica; gente che appena intuisce che in famiglia o in un gruppo o in paese c’è da fare qualcosa, si defila senza mezzi termini; gente che probabilmente non morirà mai d’infarto e nemmeno per lo stress psicofisico. Dall’altra parte, per contro, abbiamo gente che non sta mai ferma un attimo; che se non ha qualcosa da fare, se lo inventa, e non sempre con ottimi risultati; che deve per forza di cose mettere a posto ogni giorno qualcosa in casa, in cantina, nel solaio, nell’orto, in giardino, nel garage, nel magazzino; che si fa in mille pur di fare qualcosa; che si mette in tutte le attività, i gruppi, gli sport, le riunioni, gli incontri, le assemblee, le conferenze, tutte le iniziative immaginabili e possibili; che forse ha pure talmente tanta forza fisica che quasi certamente non riesce neppure ad ammalarsi, anche se rischia, certamente, di far ammalare chi gli vive accanto…

Di fronte all’affermazione: “Ci sarebbe da fare questa cosa”, i primi rispondono laconicamente: “E perché devo farlo io?”; i secondi, invece, non giungono nemmeno alle parole “Ci sarebbe da…”, che hanno già risposto: “Ci penso io!”. Questi ultimi vivono per fare, i primi “fanno” giusto per sopravvivere. Di fronte, invece, a un’iniziativa, i passivi si chiedono spesso: “Ma cosa dovrei fare, io?”; gli attivi, dal canto loro, hanno già la risposta immediata: “So io cosa devo fare”.

Neppure la comunità cristiana è esente da questa divisione tra attivi e apatici: c’è chi aspetta comodamente e beatamente la venuta del Messia senza sbattersi più di tanto (tant’è, è la grazia di Dio che salva…), e c’è chi “anticipa” la salvezza con tutta una serie di opere (di solito buone, a volte meno) che non lasciano il minimo spazio all’iniziativa di Dio, il quale, a mio avviso, a volte rischia di sentirsi “di troppo”, nella vita di fede di alcuni cristiani. Del resto, accidiosi e pelagiani appartengono entrambi a una categoria di eretici: i primi, per il fatto che non mostrano con alcun tipo di opera buona la salvezza che la Grazia di Dio opera nell’umanità; i secondi, per il fatto che non lasciano il minimo spazio all’iniziativa della Grazia, perché comunque sono convinti di salvarsi semplicemente con la quantità delle loro buone opere.

Nel vangelo, se non fosse per l’intervento di Dio nella loro vita, entrambi non comprenderebbero mai cosa significa avere un Dio che salva. Gli operai dell’ultima ora, svogliati e inoperosi per tutta la giornata, si salvano per l’intervento straordinario del padrone della vigna che li smuove e dà loro un’opportunità, sia pure sul fare della sera; il ricco stolto che ha avuto un raccolto abbondantissimo (frutto probabilmente anche della sua capacità imprenditoriale), è convintissimo di sapere già cosa fare, ovvero costruire nuovi silos e poi godersi la vita nella crapula, senza peraltro fare i conti con l’intervento di Dio che gli chiederà conto, all’improvviso, della sua vita.

Come ne usciamo? “Che cosa dobbiamo fare?”, ci chiediamo spesso anche noi, così come fecero le folle, i pubblicani e i soldati, a Giovanni Battista sulle rive del Giordano, dopo aver ascoltato il suo messaggio che invitava a preparare la strada all’arrivo del Messia. Il Battista, apparentemente, non dà delle grandi soluzioni, anzi: sembra dare consigli anche un po’ banali e scontati. Alle folle chiede di condividere i loro beni superflui con chi non ne ha; ai pubblicani chiede di essere onesti e di non riscuotere tasse più del dovuto; ai soldati, chiede di non fare un uso gratuito e abusivo della violenza. Verrebbe da dire: “Tutto lì?”. Ma il punto di partenza è un altro: ovvero, la conversione. Giovanni – ci viene detto pochi versetti prima di questo brano - predica un battesimo di conversione e chiede alla gente di fare frutti che gli corrispondano; nella seconda parte dell’opera di Luca (gli Atti degli Apostoli) il discorso di Pietro a Pentecoste termina con quella stessa domanda rivolta al Battista dalle folle: “Che cosa dobbiamo fare?”. E anche la risposta di Pietro è un richiamo al pentimento e alla conversione. E nei vangeli, la conversione - lo sappiamo bene - non è l’inizio di una vita fatta di comportamenti buoni, bensì un cambio radicale di mentalità: quello che mette Dio al primo posto nella vita del credente, prima ancora delle molte cose e dei molti miracoli che si possono fare nel suo nome.

Quando si mette al primo posto Dio, e si lascia a lui l’iniziativa nella nostra vita, tutto ciò che facciamo, poco o tanto che sia, viene da lui. E la nostra risposta attiva è il grazie più bello che gli possiamo rendere. Di fronte a un Dio che viene a salvarci, allora, l’invito del profeta Sofonia a non lasciarci cadere le braccia suona più azzeccato che mai: “Non temere, Sion: non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio, in mezzo a te, è un salvatore potente”.

Attesa inoperosa della salvezza che viene da Dio, o montagne di opere di carità che ci meritano il paradiso? Né l’uno né l’altro: alzare le braccia e accogliere il Signore che viene. Ci pensa lui, poi, a trasformare la nostra vita.

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