PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Audio

Domenica 17 febbraio 2019 - VI Domenica Tempo Ordinario - C

1ª lettura: Ger 17,5-8

2ª lettura: 1 Cor 15,12.16-20

Vangelo: Lc 6,17.20-26

 

Beata povertà!

 

Siamo sinceri: chi di noi, anche solo una volta, una volta sola nella vita, non ha invidiato chi aveva più soldi di lui? Sfido chiunque a dire che non è così. L’avremo fatto in maniera più o meno esplicita, più o meno leggera, più o meno convinta, più o meno rabbiosa. L’avremo detto magari anche solo sognando di poter fare qualcosa che ci sta a cuore (“Se avessi le possibilità, mi piacerebbe fare quel viaggio o visitare quel luogo”), oppure con il rammarico di non poter fare una determinata azione, anche buona (“Se potessi, ti assicuro che aiuterei i miei figli a pagarsi le rate del mutuo”), oppure con la rassegnazione di chi deve rinunciare a qualcosa di utile o di necessario (“Dovrei cambiare l’auto perché ormai rischia di lasciarmi a piedi. Se avessi i soldi, lo farei”). E c’è anche chi lo dice convintamente, con invidia, rabbia, gelosia nei confronti di chi ha determinate possibilità economiche (“Se avessi tutti i soldi che ha quello lì, vedresti tu cosa sarei in grado di fare più di lui!”). Infine, c’è chi affida al pensiero della ricchezza le riflessioni sui massimi sistemi della vita, in particolare sulla felicità, vista o come figlia della ricchezza (“Non credo a chi dice il contrario: per me, i soldi fanno felice una persona, perché non hai più nessun pensiero e puoi permetterti quello che vuoi. Tanto, dopo la morte non c’è più nulla, per cui meglio godersela qui”) oppure come sua antagonista (“Puoi avere tutti i beni di questo mondo, ma non sono certo i soldi a fare la felicità. Anche perché di là, non portiamo nulla…”). E la cosa più strana è che entrambe queste “anime” (quella che invidia le ricchezze altrui e quella che le ignora), giungono alla medesima conclusione: la ricchezza non è eterna, non ha nulla a che vedere con l’eternità, e soprattutto non la può garantire.

Chi di noi ama queste tematiche relative all’uso dei beni e al nostro rapporto con la ricchezza, quest’anno avrà di che sbizzarrirsi, ascoltando il vangelo di Luca. Nessun evangelista come lui, infatti, ha toccato questo tema, con toni anche accesi e drammatici, con giudizi taglienti e senza appello contro la ricchezza, espressi in alcune famose parabole: una su tutte, quella del povero Lazzaro e del ricco epulone, dove arriverà a dire che solo per il fatto di essere ricchi si è condannati alla morte eterna. Terribile… chi di noi avrebbe il coraggio di usare certe espressioni? Perché mai giudicare chi ha molti beni? Al più, si può affidare tutto all’indifferenza e alla sufficienza. Della serie: “Sono ricchi? Buon per loro, che facciano quello che vogliono con i loro soldi, basta che siano stati guadagnati onestamente… Se ce li hanno, beati loro”. “Beati loro”, si giunge, così, a dire dei ricchi.

Poi però ascoltiamo un vangelo come quello di oggi, e arriviamo alla conclusione che, forse, è meglio ancora la parabola del ricco epulone, che perlomeno parla di aldilà, e quindi c’è ancora tempo per pensarci, prima di “passar su”… Il vangelo di oggi, invece, parla del presente, e anche se usa alcuni verbi al futuro, si riferisce comunque alla nostra realtà terrena. E su questa nostra realtà terrena, fa cadere, come una scure, una divisione netta, categorica, tra poveri e ricchi, tra chi ha fame e chi è sazio, tra chi piange e chi ride, tra chi è odiato e calunniato e chi è benedetto sulla bocca di tutti. A una delle due categorie, dice “beati voi”; all’altra, “guai a voi”. E stando ai discorsi di prima, umanamente parlando andiamo subito a cercare i ricchi nella categoria dei “beati voi”: per scoprire, tuttavia, che non ci stanno.

Una vera sorpresa. O forse no: non è così sorprendente che i ricchi, in questo brano di vangelo, non appartengano alla categoria dei “beati voi”, ma a quella dei “guai a voi”. Perché quello di Luca non è solo un discorso “da vangelo”, o “di gente bigotta di chiesa”, e tantomeno un discorso sociologico, rivoluzionario, o peggio ancora anarchico, bolscevico o sinistroide. Eh, già: perché quel “guai” non è una minaccia diretta ai ricchi, ai sazi e ai gaudenti, messi in guardia da un popolo alla riscossa che la farà loro pagare. No. Quel “guai” ha un significato più simile a un “ahimè”. Per quel “guai”, Luca intende un “ahi!”: ed era il grido del lamento funebre dei “lugentes”, dei “piagnoni”, di quelle persone, cioè, che ai funerali creavano una coreografia di dolore seguendo la bara con grandi lamenti e grida, a sottolineare la miserevole condizione del defunto, povero di fronte al nulla che lo stava avvolgendo, meno fortunato di chi, bene o male, aveva ancora con sé il bene più grande, quello della vita. Ecco: affibbiato ai ricchi-sazi-gaudenti, quel “guai” del vangelo di Luca suona come un “poveri voi, la vostra condizione è una condizione mortale”. E questo, non per minacciare o per augurare sfortuna, ma solamente per prendere atto di quello che comporta avere parecchi beni materiali.

All’inizio della nostra riflessione avevo sfidato chiunque di noi a dire chi non avesse mai anche solo una piccola volta nella vita invidiato un ricco; ora, invece, sfiderei chiunque ha abbondanti beni materiali a dire se la sua condizione è veramente e profondamente una condizione di “beatitudine”, visto ciò che gira intorno al mondo della ricchezza. Dalle cose “meno drammatiche” (pagare un mucchio di tasse su ciò che si possiede), a quelle un po’ più gravose (gestire in modo redditizio le proprietà evitando fallimenti), a quelle angoscianti (difendere i propri beni dagli attacchi dei malintenzionati, dei delinquenti, dei ladruncoli in passamontagna o con i colletti bianchi), a quelle veramente dolorose, perché minano la serenità dei rapporti familiari, affettivi, di amore tra le persone. Chi ha in ballo contenziosi legati all’eredità sa bene di che drammi parlo….

E allora, concludo con uno dei miei soliti aneddoti, che è forse il miglior commento a tutto quanto ci ha detto il vangelo oggi.

Un mio caro amico, ultimo di sei fratelli, si è trovato a dover entrare in accordo con gli altri cinque per i beni che il papà, vedovo e anziano, avrebbe presto dovuto lasciare loro in eredità. E il papà si era accorto che tra i figli iniziavano già a serpeggiare malumori e discussioni: cosa che, interiormente, lo stava devastando. Non avrebbe mai voluto arrivare a quello: ma alla fine i figli lo convinsero, prima che avvenisse di colpo senza alcuna preparazione, ad andare dal notaio a fare un’equa divisione dei beni che evitasse le liti tra di loro. Quando dunque il notaio chiese a lui, di fronte ai figli, di esprimere le proprie volontà, queste furono le sue parole (rigorosamente pronunciate in dialetto bergamasco): “Signor notaio, io non so cosa ho via. So solo una cosa: lei mi faccia l’elenco, e se mi rimane anche solo una vecchia sedia tutta rotta, spacco pure quella in sei parti tutte uguali, pur di non vedere i miei figli nei guai, litigando per quattro stracci”.

Beati i poveri, appunto…

 

 

.

Ascolta questo articolo: