PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 15 settembre 2019 - XXIV Domenica Tempo Ordinario – Anno C

1ª lettura: Es 32,7-11.13-14

2ª lettura: 1 Tim 1,12-17

Vangelo: Lc 15,1-32

 

La “felix culpa” del Vangelo

 

C’è un’espressione attribuita a un’omelia di Sant’Agostino che suona così: “Felice colpa, quella dei nostri progenitori Adamo ed Eva quando peccarono, perché ci ha meritato di sperimentare la grazia del perdono del nostro Redentore Gesù Cristo”. È un’espressione che ritroviamo pure nella Liturgia della Notte di Pasqua, quando viene annunciata la resurrezione di Cristo col grande canto dell’Exsultet, il Preconio Pasquale: “Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo. Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!”. Sembra un paradosso: com’è possibile definire “felice” una colpa, come si può essere contenti perché si è commesso un errore? E soprattutto, riferito alla vita di fede, come possiamo essere felici perché peccatori?

Sì, in effetti, si tratta di un paradosso: è quella che gli studiosi di sant’Agostino definiscono “la paradossale gioia” di cui sono pervase molte sue opere, forse condizionate anche dalla sua vita, nella quale il santo dottore della Chiesa ha sperimentato più volte il peccato e la lontananza da Dio. Per poi, alla fine, scoprire la gioia del perdono ritrovato, che lo porta a definire “felice” anche l’errore commesso, proprio perché cogliamo fino in fondo la portata del nostro peccato non quando l’abbiamo commesso, ma solo nel momento di maggior gioia, ovvero quando ci accorgiamo che la Grazia di Dio ce l’ha già perdonato.

So che non è un concetto semplicissimo da comprendere e soprattutto da accettare, perché parrebbe addirittura giustificare chi si comporta male o ha una vita non esemplare, il quale, tant’è, può dirsi felice, visto che comunque Dio lo ha già perdonato. Eppure, Gesù stesso ha espresso molto bene questo concetto, e lo ha fatto con quella disarmante e profonda semplicità che caratterizzava i suoi insegnamenti più popolari, ossia con le parabole, quei discorsi che tutti, anche i meno eruditi e gli analfabeti potevano cogliere. Anzi, come vedremo, sono proprio loro a poter cogliere la profondità delle sue parabole e dei suoi insegnamenti, che rimane invece nascosta ai dotti e ai sapienti, i quali continueranno a pensare a Dio come l’Essere Supremo da servire e riverire: ma poi, non è detto che servirlo e riverirlo significhi, alla fine, amarlo. Perché è vero che Dio ci vuole santi, come lui è santo: ma non ci vuole perfetti, perché è consapevole che, perfetti, non lo saremo mai. Ci vuole santi nel senso delle Beatitudini, ovvero “beati”, “felici”: felici benché peccatori e imperfetti, e addirittura felici “perché” peccatori e imperfetti.

Nei trentadue versetti che compongono il capitolo 15 del Vangelo di Luca, si concentrano in maniera mirabile tutti questi elementi della nostra fede, e tutta una serie di sentimenti e di espressioni ad essi corrispondenti che fanno delle tre parabole della misericordia un microcosmo teologico, anzi potremmo dire il microcosmo, il concentrato della teologia di Luca, che forse si può ulteriormente condensare in un concetto: la gioia del Vangelo. Non a caso, credo, papa Francesco ha fatto di questa espressione, “la gioia del Vangelo” (“Evangelii Gaudium”, in latino) oltre che il titolo della sua prima e principale Esortazione Apostolica, anche il motto del proprio stile e del modello di cristianesimo che ci sta dietro: nella vita di fede, nel rapporto con Dio, non c’è posto per sentimenti come il rancore, il risentimento, la rabbia, l’invidia, il giustizialismo, il mugugno, la gelosia. Tutte cose che ritroviamo soprattutto nell’ultima delle tre parabole di oggi, quella dei due fratelli, figli di un Padre folle d’amore per loro. Essere dei buoni cristiani, fondamentalmente, significa una sola cosa: essere felici, essere nella gioia, vivere con la gioia nel cuore, pur nella percezione delle nostre meschinità e dei nostri limiti umani e di fede. Anzi, le parabole di oggi ci raccontano la “bellezza della colpa”, la gioia di scoprirsi peccatori, non nel senso di gente che è contenta di fare il male, ma di gente che è felice perché amata, perdonata, abbracciata, sostenuta, nonostante e a partire dai propri peccati.

Del resto, che cosa c’è di più limpido di un cielo dopo una tempesta? Che cosa c’è di più gioioso di un raggio di sole dopo giorni di pioggia? Che cosa c’è di più bello, tra due persone che si vogliono bene, di un gesto d’amore ritrovato dopo momenti di incomprensione che, brevi o lunghi che siano, paiono sempre un’eternità? Che cosa c’è di più commovente dell’abbraccio di un padre verso un figlio ingrato e degenere che prova – consapevole di potere venire anche rifiutato – a tornare a casa sua dopo averne combinate di cotte e di crude? Che cosa c’è di più felice del volto di una donna che aveva smarrito i pochi soldi che le rimanevano per arrivare alla fine del mese, e li ritrova solo dopo aver messo a soqquadro la casa? Che cosa c’è di più consolante per un agnellino smarrito ritrovare la propria mamma grazie alla testardaggine di un pastore che pur di ritrovarlo non ci pensa due volte ad abbandonare un intero gregge?

Sapeste che bello, per noi, “pastori” del gregge di Dio, vedere gente contenta, contenta di essere credente, contenta di venire in chiesa, contenta di vedere gli altri contenti, contenta perché chi era lontano da Dio è tornato a riavvicinarsi, contenta di sapere che nonostante i suoi limiti Dio le vuole bene! E sapeste che tristezza vedere cristiani “perfetti”, “irreprensibili”, “giusti”, che non sgarrano mai con le cose di Dio e con i suoi precetti, che lo servono e lo riveriscono pensando che questo sia sufficiente per amarlo, che non perdono occasione di insegnare Dio agli altri ma che sono sempre infelici, scontenti, arrabbiati, invidiosi, maldicenti nei confronti di tutti, specialmente dei lontani, sempre critici verso un Dio che ama, accoglie e perdona!

Pensate che stia esagerando? Pensate che non esistano cristiani così? E allora, perché mai Gesù avrebbe avuto la necessità di narrare una parabola che è divenuta un mito, e che ha letteralmente fatto la storia del Cristianesimo?