PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 28 aprile 2019 - II Domenica di Pasqua – Anno C

1ª lettura: Atti 5,12-16

2ª lettura: Ap 1,9-11a.12-13.17-19

Vangelo: Gv 20,19-31

 

Ne vale la pena

 

 

            A volte siamo veramente poco attenti nei confronti delle persone. E quando ci raccontano i loro problemi, le loro fatiche, le loro difficoltà, invece di consolarli, insistiamo nel chiedere dettagli del perché, del cosa, del come, del quando, del dove… E loro, magari, avrebbero solo desiderio di voltare pagina… e noi invece a insistere su quella pagina, su quelle righe, su quei concetti, che vogliamo capire solo per la curiosità nostra di capire. Come si suol dire, invece di aiutare a curare le loro ferite, a chiuderle e a cicatrizzarsi, non facciamo altro che riaprirle, “mettendo il dito nella piaga”. Può anche darsi che non lo facciamo di proposito: anzi, mi auguro che sia veramente così. Però è una cosa che fa davvero male, per chi la deve subire. Vuol dire impedirgli di ripartire, di ricominciare: vuol dire, in fondo, essere legati al passato, non voler guardare avanti, e impedire – a chi vuole farlo – di andare “oltre”.

            Abbiamo tante occasioni, nella vita, per andare “oltre”, per superare i limiti, per non fermarci dove ci troviamo.

Quando andiamo a fare due passi in qualche zona che conosciamo bene perché la frequentiamo spesso, ci viene anche voglia, a volte, di andare “oltre”, e di spingerci lungo sentieri e strade che non conosciamo, per vedere che cosa c’è al di là, e magari scopriamo posti nuovi e belli, per i quali diciamo “ne è valsa la pena”;

quando un atleta vuole andare “oltre” i limiti che la sua natura e le sue capacità finora gli hanno imposto, per migliorare sempre più le proprie prestazioni, e stabilire nuovi primati che non siano solo record personali, e magari dopo una serie di allenamenti e fatiche estenuanti riesce a ottenere la prestazione che dà una svolta alla sua vita, capisce che davvero “ne è valsa la pena”;

quando stiamo vivendo una relazione di fiducia con una persona, e poi la facciamo diventare un rapporto di amicizia, e poi la coltiviamo al punto che l’altro non ci basta mai, vogliamo spingerci “oltre”, non tanto perché amiamo il rischio, ma perché sentiamo che il cuore ci dice così, e magari scopriamo che l’altro non è più solo amico, ma diventa parte della nostra storia, allora giungiamo a dire che “ne è valsa la pena”.

In fondo, c’è sempre una “pena” da affrontare, una fatica da vivere: e se abbiamo il coraggio di andare “oltre” questa pena e otteniamo tutto quello che abbiamo descritto sopra e chissà quali cose ancora, ci rendiamo conto che questa “pena” non era una fatica fine a se stessa, ma è stato il prezzo da pagare per qualcosa di più, e allora, sì, la “pena” ha avuto un valore.

Però la “pena”, la “fatica” va affrontata, altrimenti quell’“oltre” che vogliamo ottenere, quel limite che vogliamo valicare, rimarrà sempre un sogno. La Spagna, ad esempio, non avrebbe nel proprio stemma reale il motto “plus ultra”, “andare oltre”, collocato sopra le colonne d’Ercole dello stretto di Gibilterra, se un visionario marinaio genovese di nome Cristoforo Colombo non avesse sfidato tutti quelli che insistevano nel dire che “oltre” quell’oceano non avrebbe mai trovato altre terre, perché sarebbe precipitato nell’abisso senza fine. E non è stato facile, per lui, subire angherie, insulti, calunnie, malvagità che lo portarono a esaurire anche tutte le proprie risorse economiche, oltre che la sua tenacia: fortunatamente per lui, incontrò una regina altrettanto visionaria quanto lui, Isabella di Castiglia, e grazie a loro la Spagna può vantarsi di aver scoperto il nuovo mondo, proprio andando “oltre”.

Nella nostra vita, c’è tuttavia un qualcosa “oltre” il quale (umanamente parlando) non è possibile andare, perché – per quanto ci impegniamo – rappresenta il limite per eccellenza, il “muro”, la “barriera” contro la quale si infrangono le onde del nostro orgoglio e della nostra tracotanza. Ed è un limite che nessuno di noi può oltrepassare. Possiamo al massimo “rimandare” il problema, evitando di pensarci, lasciando che arrivi il nostro momento: e allora – quando è arrivato il momento di una persona che amiamo – facciamo quello che fece un certo Tommaso di Galilea, quando il suo amato Maestro Gesù, anch’egli galileo, nel quale aveva riposto le sue speranze di vittoria contro l’oppressione romana, finì miseramente inchiodato a una croce. Tommaso non fu come gli altri suoi compagni: decise che su quella vicenda del Maestro ci andasse messa una pietra sopra, pesante come un macigno, irremovibile, e che bisognava andare “oltre”. Tant’è vero che – sfidando anche le autorità religiose – decise da subito di riprendere la vita di ogni giorno, evitando, come invece fecero gli altri, di rinchiudersi in un luogo sicuro. Lui, infatti, quella sera, la sera del primo giorno dopo il sabato, non era con gli altri, quando il Maestro si presentò vivo dimostrando che era possibile ribaltare la pietra messa sopra la tomba e andare “oltre”. Lui non accettò, inizialmente, di fare come gli altri: riprese la sua vita di sempre, e la fece andare avanti, la fece andare “oltre”, a modo suo, aggirando l’ostacolo, eludendo il problema, addirittura “sfidando” il Maestro - che nel frattempo aveva fatto andare gli altri “oltre” la morte - chiedendogli di poter mettere “il dito nella piaga”, perché così tutti avrebbero capito quanto costa, quanto si soffre ad andare “oltre”.

Facile dire che il Maestro è risorto, è andato “oltre”, senza affrontare la sofferenza che ha comportato vederlo morire! E il Maestro accetta la sfida, e mette il dito nella piaga con lui: riapre con lui quella ferita (in realtà mai rimarginata, perché Cristo continua a mantenere aperte le sue piaghe nell’umanità che muore e risorge con lui) perché Tommaso sia capace di andare “oltre” affrontando il problema del limite e della morte. Capendo, in fondo, che “ne è valsa la pena”.

Chissà quante volte il Signore accetterà di mettere il dito nella piaga di fronte alle nostre sofferenze e ai nostri limiti: anzi, spesso sarà lui stesso a chiederci di farlo. Ma possiamo stare sicuri che “ne vale la pena”.