PARROCCHIA San Pietro Apostolo Bolgare

Domenica 11 agosto 2019 - XIX Domenica Tempo Ordinario – C

1ª lettura: Sap 18,6-9

2ª lettura: Eb 11,1-2.8-19

Vangelo: Lc 12,32-48

 

E si chiama vita

 

Quando utilizziamo qualcosa di nostra proprietà, ci sentiamo tutto sommato liberi, nell’utilizzarlo. La nostra auto, la nostra casa, i nostri utensili… li utilizziamo con cura, certo, ma anche con tutta quella libertà di chi sa da averne il possesso, di esserne proprietario e unico responsabile, anche qualora succedesse che qualcosa si rovina, si guasta, si consuma. Sappiamo bene, infatti, di potervi mettere mano, senza dover rendere conto ad alcuno di come o di cosa ne facciamo.

Ma quando l’auto, la casa, un utensile o qualsiasi cosa utilizziamo non sono di nostra proprietà perché ci sono stati prestati o affidati, allora la cura che ci mettiamo nell’usarli – se abbiamo un minimo di senso di responsabilità – diviene maggiore. In casa mia posso fare quello che voglio: spostare un mobile, appendere un quadro… e nessuno mi dice nulla. Ma se sono ospite di qualcuno per un certo periodo, me ne guardo bene di toccare o spostare qualcosa senza prima averne chiesto il permesso o comunque senza poi rimettere tutto come avevo trovato: fa parte delle regole minime dell’ospitalità, e comunque è segno di rispetto nei confronti di chi ti ospita e di chi ti affida generosamente e con gioia la sua casa. Avere cura di se stessi e delle cose che ci appartengono, è importante; ma avere cura delle cose che altri ci affidano e consegnano nelle nostre mani lo è molto di più, anzi è doveroso.

Questo esempio ci può aiutare a comprendere quanto viene espresso al termine del ricco e composito brano di vangelo che abbiamo ascoltato oggi: “A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”. Nella mentalità ebraica, i beni che una persona possedeva erano ritenuti segni della benedizione di Dio: e più se ne possedevano, più si era benedetti. Ovviamente, a chi riceveva questa benedizione divina, veniva chiesto da Dio stesso di essere capace di rispondere a questa benedizione, restituendo molto di più di quello che Dio aveva donato: e questo avveniva attraverso la capacità di far fruttare questi beni, di modo che si moltiplicassero e rendessero così visibile l’abbondanza della benedizione di Dio sul soggetto. Ecco perché gli uditori di Gesù rimanevano sconvolti di fronte ad alcune sue affermazioni sulla - o meglio “contro” - la ricchezza, ritenuta da Gesù più che un dono, un pericolo, in quanto incapace di dare sicurezze e addirittura potenzialmente capace di portare alla rovina, terrena ed eterna.

Un brano di Vangelo come quello di domenica scorsa, dove – secondo la mentalità ebraica, ma anche secondo il buon senso di un lavoratore che si arricchisce col lavoro onesto di una vita – il ragionamento del ricco desideroso di godere dei beni del proprio lavoro e della propria terra viene troncato da Gesù con uno sferzante giudizio sulla sua vita, più preziosa e più precaria dei molti beni ricevuti, non poteva che sconvolgere l’uditorio di Gesù, a partire dai discepoli stessi. E, infatti, nel capitolo 12 del Vangelo di Luca che oggi abbiamo letto, il Maestro continua la sua riflessione sul senso del possedere i beni materiali come dono e benedizione di Dio. E la conclusione a cui giunge è proprio la frase che abbiamo citato prima: quanto ci è stato donato, richiede responsabilità (cosa che il ricco stolto di domenica scorsa forse non aveva messo in conto), ma quanto ci è stato affidato e quindi non ci appartiene, richiede ancor maggiore responsabilità, in quanto va curato e tenuto da conto, per restituirlo intatto e non rovinato a chi ce lo ha affidato. E cos’è che ci è stato “affidato”? In fondo, una sola cosa: la vita.

            La vita, per quanto noi sempre riteniamo che ci appartenga, non è un dono di cui diveniamo proprietari e del quale possiamo disporre come vogliamo. È qualcosa che ci è stato affidato, senza che ne entriamo in possesso, perché proprietario della nostra vita rimane l’affidatario, l’artefice della nostra vita: Dio. E come ci ha insegnato il brano di domenica scorsa – così come ce lo ricordano anche i primi versetti del Vangelo di oggi - Dio può chiederci conto della nostra vita in qualsiasi momento, improvvisamente, senza che meno ce lo aspettiamo, come fa un ladro quando, nel cuore della notte, entra a svaligiare una casa e ovviamente non avvisa né chiede permesso agli inquilini. 

La precarietà di questa nostra condizione, tuttavia, non ci deve spaventare, facendoci vivere nell’agitazione di qualcosa che può arrivare in maniera repentina, senza che ci siamo preparati (e comunque, all’incontro con lui preparati non lo saremo mai, c’è poco da fare): non a caso, Gesù si preoccupa di aprire l’annuncio del Vangelo di oggi con queste parole: “Non temere, piccolo gregge”. Quel piccolo gregge che era lo sparito gruppo di cristiani al tempo dell’evangelista Luca, e che siamo anche noi, seguaci di Gesù Cristo magari numerosi nel mondo, ma comunque minoritari rispetto al pensiero del mondo su Dio, non deve temere di fronte al pensiero delle realtà ultime della vita, o della precarietà della vita stessa, o della gestione dei beni che ci sono stati affidati, in primis, appunto, la nostra esistenza: deve solo cercare di vivere con quella serenità fondamentale di chi sa che quello che ha tra le mani non è suo, per cui non deve affannarsi nel gestirlo come se tutto dipendesse da lui, ma anche con quel senso di responsabilità di chi sa che deve restituire integro e intatto al proprietario il bene che ci è stato affidato.

E quando il bene affidato è il bene più prezioso, e si chiama vita, allora va conservato come un tesoro prezioso, al quale attaccare non le nostre mani, pronte sempre a dilapidare ogni bene, bensì il nostro cuore, come facciamo quando il nostro cuore lo affidiamo a quelle persone che chiamiamo “tesoro” perché le amiamo come qualcosa di veramente prezioso.

Le quali, pur essendo dei tesori meravigliosi, non avrebbero alcun senso di esistere se a loro e a Dio non fossimo capaci di donare i beni del tesoro più prezioso che abbiamo: e si chiama vita.